Martin Parr: “La fotografia è nella sua essenza un mezzo democratico, che possiede una grande capacità di emozionare la gente e, insieme, un forte potere di mischiare i generi, bruciare le categorie.
Quando si cerca di rinchiudermi in una categoria, cerco immediatamente di uscirne. L’esperienza personale della mia vita quotidiana si sovrappone ai soggetti che scelgo e cerco di articolare in fotografia quello che vivo nella mia esperienza del mondo“.
Il mondo è pieno di fotografie di cose come i circhi, gli ospedali psichiatrici e il carnevale, che la gente fotografa perché questi soggetti permettono di realizzare buone immagini. Non è che la gente si interessi ai circhi o agli ospedali psichiatrici più che ad altro; è solo che questi sono classici soggetti fotografici. Come le zone di guerra, con la loro alta drammaticità. Il linguaggio e gli argomenti della fotografia sono molto limitati. Ancora adesso, c’è gente che si aspetta di poter entrare a Magnum mostrando foto di prostitute o drogati. Ma si tratta di soggetti che vedi continuamente mentre ce ne sono molti altri a cui nessuno si interessa mai. Non pretendo di aver inventato un nuovo genere, ma prendiamo il mio lavoro sul cibo, per esempio. Ho pensato che fare foto del cibo fosse un modo perfetto per osservare il paesaggio sociale. Gran parte del cibo che ho fotografato è junk food – cibo spazzatura, ovviamente, quindi alla fine si è trattato anche di una riflessione sulla globalizzazione. Anche altri soggetti che scelgo sono in qualchee modo prosaici, ma riflettono sempre cose che riguardano tutti noi e in ogni momento.
Una delle direttrici forti dell’insieme del mio lavoro è creare la finzione partendo dal mondo reale: mischiare realtà e artificio, confrontare i territori, inventare per esempio un’immagine di moda che somigli a una foto di documentazione o il contrario. Nello stesso modo, trovo interessante giocare con determinati codici della pubblicità, condividere questo linguaggio restando sempre aderente alla mia propria logica e cercando di raggiungere il mio scopo.
Più la gente dimostra l’osservazione al controllo, alla perfezione, più svela le sue possibili mancanze. E il soggetto del mio lavoro è precisamente la ricerca di queste mancanze, questa vulnerabilità di cui cerco le espressioni all’interno della società… Non esiste nessuna traccia di cinismo nel mio sguardo. Direi addirittura che c’è del rispetto.